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Questa rubrica d’ ’O puosto è riservata a recensioni d’opere d’ogni tempo pensate e scritte nei linguaggi della Campania. La inauguriamo però facendo un’eccezione che si spiega col carattere del testo. Si tratta di “sapori mediterranei” e cioè di quel gusto che condisce e nutre ciò che fa sapere quanto è per noi cultura della nostra terra.

I saperi dei sapori
di Amedeo Messina

Plutarco ci racconta che Diogene, discepolo di Socrate, morì per aver mangiato un polpo crudo, ma non ci dice perché l’avesse fatto. Dal momento che nulla del suo modo di pensare ci fa credere a un suicidio, occorre ritenere che volesse dimostrare la possibilità, anche dietetica, di un liberatorio “ritorno alla natura”. Quella stessa civiltà, che dopo secoli Rousseau indicava come fonte d’ogni corruzione, a propria volta proponendo l’idea che i processi educativi non dovessero perpetuare l’ordine esistente, bensì elaborare modelli culturali alternativi. Ed è noto che a tavola era lieto di nutrirsi quasi solo di formaggi.
Di parere opposto, anche se interessato al superamento del modello antropico corrente, fu certamente Friedrich Nietzsche quando affermò in Ecce homo che «il problema dell’alimentazione m’interessa come un problema da cui dipende la salvezza dell’umanità molto più delle curiosità della teologia», aprendo così la strada alle analisi di Claude Lévi-Strauss, per le quali il dato culturale nella specie umana si misura nella distanza che separa il cibo crudo dalla civiltà della cucina. Sappiamo così che nessuna gastronomia è mai innocente, e rifiutare il fuoco, alla maniera di Diogene, significa opporsi, al tempo stesso, alla civiltà che la cucina presuppone.
Ecco il motivo per cui salutiamo l’agile volume di racconti scritti da Mara Fortuna come autentica memoria da cui tornano a vivere sapori antichi, in un impasto narrativo che attraversa aromi e sughi, carni marittime e terrestri, spezie e condimenti d’ogni specie. Perché non è il solito manuale di ricette messe in fila e ripartite in un ordine che non ha nulla da offrire al gusto. Partendo dalle proposte sapide di Lucio Martiniello la scrittura è tutta accolta e occulta accanto al mare ed ai fornelli, lì dove una breve trama di ricordi traffica coi pesci, coi crostacei, coi molluschi, tra gli ortaggi e i dolci per donarci onde di piacere che hanno il fascino nativo delle arcadie piscatorie. E noi lettori siamo presi nella rete degli eroi di un mito accessibile a ogni gola e a ogni intelligenza.
Si prenda il caso già del primo dei racconti, quando l’autrice ci dischiude un Eden per ghiottoni dove un’incantata e incantevole Laura – ma il lettore o la lettrice scoprirà ben presto che si tratta di un eteronomo dell’Eva sempiterna – non può non cogliere da un fico primordiale il frutto di delizie pieno, la cui polpa zuccherina e dal colore della carne viva introduce all’esperienza del bene che a volte ci fa male e di quel male che molto spesso copre il bene che cerchiamo. Oppure quello dei “frutti segreti” dove l’innocenza d’un ragazzo naufraga dentro la sapienza femminile di cui Sergio Staino ha dato i tratti della Saraghina felliniana e che a noi è parsa reincarnare la jeune gèante di Charles Baudelaire. Quella stessa nelle cui ombre ogni ragazzo sogna di trovar pace come un borgo sotto una collina.
Ce n’è abbastanza perché sfogliando il libro si sia presi in tutti i sensi e in molti gusti. E ognuno, una volta chiuse le pagine alla prosa, all’arte e alla cucina, non è più solo, ma si ritrova come tra vecchi amici. Come càpita agli ulivi pallidi, contorti e sofferenti, che affondano radici nel terreno spesso ingrato della vita quotidiana. Continuano a dare foglie e frutti perché si afferrano lì sotto, lungi dagli sguardi di chi li ammira solo perché producono ricchezza. Intrecciando affinità elettive, gusti condivisi, trame antiche e scoperte nuove di stupende favole d’amore e d’amicizia. Favorite. Siamo invitati tutti a lèggere e a gustare. E sono tempi, questi, in cui ce n’è bisogno.


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