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Una pianta che a Napoli ha radici
di Amedeo Messina

C’è una gran voglia tutto in giro della logica del piccolo mondo antico, con le sue invenzioni minime rispetto alle tecnologie tanto più incomprensibili quanto più avanzate, i minuscoli suoi affetti piuttosto che le ideologie roboanti, la chiacchiera privata contro la comunicazione rumorosa.
Sono in molti a voler vivere tra gli oggetti esigui e genuini. Sempre più apprezziamo nuovamente il pane, il vino e il focolare, dopo tanti affanni ad inseguire diete di stranezze e fantascientifiche cucine.

Dopo tanto girovagare sul pianeta ritorniamo volentieri ai vicoli di Napoli, alle fiabe del suo golfo, alle magie degli abitanti. Così è pure per gli amori. Ci richiamano le nuvole leggere, le fragili innocenze dei bambini, le semplici carezze con cui ci salutano le mogli, i complici sorrisi dei compagni, un ultimo lavoro ben riuscito. No. Non è accidiosa malinconia dei vecchi. Anche i giovani rivestono di metafore una realtà sempre più nuda e creano un intero mondo nelle cose più modeste.
Si riascolti per esempio il ben famoso brano di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, che con la sua “Canzone piccola” ha lanciato quasi il manifesto giovanile di un minimalismo esistenziale in grado di dar voce a caffettiere, cartoline, pasta e ceci, passeggiate o, perchè no? canzoni che non hanno niente da risolvere a qualcuno. Puro sguardo sulle cose d’ogni giorno, pronte a diventare le affidabili compagne di giornate senza senso, prive di programmi e d’ideali.
Tutto questo mi è venuto in mente rileggendo il nuovo libro di poesie con il quale Claudio Pennino ha per la terza volta intercettato una tendenza forte nella realtà contemporanea, pubblicandolo nell’agile collana “Tirature limitate”, con cui le instancabili Edizioni Intra Moenia di Attilio Wanderlingh e Ursula Salwa propongono dal 1990 a sensibili lettori molte belle voci dell’attuale poesia napoletana.
’A pianta d’ ’a felicità è il titolo della sua ultima fatica presentata, ad oltre cento amanti della poesia napoletana che gremivano la sala Gemito di Napoli lo scorso 5 novembre, dal napoletanista avv. Renato de Falco, dal poeta Vincenzo Fasciglione, dal presidente della Commissione Cultura del Comune di Napoli, Gianpaolo De Rosa, e da chi scrive, con l’eccesso dei ritardi ponderati, queste righe certamente non in grado di sostituirsi al testo.
Dopo una lettura più pacata si può dire in primo luogo che Claudio Pennino prosegue nella sua ricerca di scrittura poetica, compatta di momenti intensi e ricchi del sentire lirico del mondo, espresso sui sentieri di un linguaggio e di uno stile che per vocazione, più che come scelta culturale, non si presta alle cervellotiche lusinghe delle sperimentazioni. La si potrà anche dire ingenua, ma non c’è dubbio che sa cogliere, nell’esperienza patica del vivere, tutta l’umanit‡ dei sentimenti giudiziosi.
Lì dove il poeta ha costruito liriche simboliche o allusive, per poter meglio interrogare l’esistenza con i suoi dolori e le sue gioie, egli sa donare la sua voce alle emozioni, adoperando con perizia le parole d’una Napoli essenziale. E infatti il suo linguaggio è sempre, al tempo stesso, rapido e disteso, scorrevole e preciso, nitido e incisivo. La sua poesia attraversa gallerie di sofferenza per schiudersi sull’uscio della gioia partecipe e interiore.
Il titolo che ha posto alla raccolta suggerisce facilmente tentazioni al centro di un giardino ricco d’ogni sortilegio, ma non facciamoci ingannare dall’ebbrezza dei piaceri vegetali. Una pianta che promette la felicità è una meta ambita, ma il lettore attento scopre molto presto che l’icona arborea può far danni che soltanto i versi riescono a curare. Tant’è che la sostanza sua non ha la concretezza di un oggetto e allude, invece, ad una condizione esistenziale che si fa felice più per gli affetti che per fede o per magia.
So bene che le pagine del libro sembrano proporre oggetti e forme come fonti d’improvvisa gioia, ma non fatevi rapire dalla trappola del gioco appassionato. Vero è
che sono oggetti e forme, ciò da cui dipende in larga parte una tristissima o felice condizione e tuttavia, sul piano della lirica, ogni cosa prende vita solo per il fatto d’essere evocata. Ne consegue che l’unica realtà di cui un poeta parla è quella dell’assenza.
A ben riflettere, ogni espressione lirica si gioca nello spazio senza luogo, puramente immaginario, in cui l’autore cerca di vincere la difficile scommessa di togliere dalle ombre dell’oblio oggetti e forme d’ogni giorno per portarli nella luce d’una permanente dissolvenza memoriale. Così come nel mito classico di Orfeo ed Euridice il canto trionfa nella sua disfatta, immortalando ciò che sembra, a tutta prima, solo semplice immanenza.
Quella che noi pensiamo essere realtà può darsi sia soltanto affare di opinioni personali. Il mutevole prodotto del buon senso. La rendita variabile di un modo di vedere. Può darsi pure che la realtà consista, tutta quanta, nella sensorialità che la costituisce, ma resta vero che il poeta è il più grande esperto della relatività ristretta e generale. Chi più di lui, infatti, è autorizzato a poter dire che le cose sono in quanto e come egli le dice? E qui si annida, a mio parere, il gran mistero per il quale ogni parola può essere di tutti e al tempo stesso soggettiva.
E mi affretto a dire qui, in secondo luogo, che l’amore delle piccole realtà concrete o astratte lascia manifeste tracce nel linguaggio. Pennino adopera, o anche abusa volentieri, di risorse necessarie cui le sue entit‡ fittizie debbono la loro poetica esistenza. Basterà, io credo, citar qui l’esempio delle forme lessicali volte in modo esuberante al diminuitivo e delle quali sembra a me di avere inventariato tutte le occorrenze, distinguendole in ordine ai loro referenti e numerandone le molteplici occasioni.
1. Qualità di cose o di persone: pucurillo, tunnulillo, piccerillo (3), bellille, malatielle, vavusielle, puveriello, tantillo, bruttulella, muccusiello, piccerella piccerella (superlativo) = 13.
2. Costruzioni: paisiello, viarelle (2), funtanella, casarelle (2), palazziello, purtusella, fenestella, cunnulella, panariello, vestetetiello, specchietiello, cartuscella (2), senghetelle, cartucciello, valanzella, fattariello, petrella = 20.
3. Piante: semmentella (2), aceniello, mullechelle (3), melillo, frunnella, rusella, = 9.
4. Animali: anemaluccio, aucelluzzo, beccuccio, vermezzullo, suricillo, palummelle, muscillo, = 7.
5. Persone: criaturiello (2), guagliuncielle, pazziariello, cianciusielle, bammeniello, nnammuratella, = 7.
6. Immaginario: angiulillo (3), madunnella, spiretiello, = 5.
7. Luoghi e funzioni del corpo: faccella (3), resatelle (2), manella, ricciulillo, spalluzzelle, scelletelle, mussillo, lacremella, vucchella, = 12.
8. Forme avverbiali: Chiove a lavarella = 1.
Ne risulta che in 45 pagine di 33 poesie, non importa qui se nomi, aggettivi o forme avverbiali, son presenti ben 73 diminuitivi a fronte di soli 2 accrescitivi: iattone e nfamone. Tutto ciÚ a me sembra rinviare a una onomaturgia miniaturizzante che trasporta nella leggerezza primordiale delle cose quotidiane per trovarvi una lacrima o un sorriso. Allievo di una poetica d’immagini frugali, Claudio Pennino ci consegna il proprio mito personale d’uno sguardo di fanciullo sulla terra desolata da fin troppe sofferenze per poter sopportare anche le truccature letterarie.

Claudio Pennino,
’A pianta d’ ’a felicità,
Napoli, Intra Moenia, 2004

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