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Nferta
p' 'o capodanno d' 'o 2004

di Amedeo Messina

Natale e Capodanno sono giorni consacrati a ogni genere di doni, di presenti, di regali o strenne. A Napoli ci stanno presiente, riale, nferte e cresemisse. Dei primi due non dico nulla, perché termini del tutto equivalenti agli italiani. Dell’ultima dirò soltanto che si tratta di parola di recente ingresso e di costante diffusione. L’origine è nell’uso di biglietti e cartoncini provenienti dagli Stati Uniti con le scritte di happy o merry Christmas che venivano acquistati e poi spediti, sia da soli che allegati ad un bel dono. L’oralità napoletana, com’è noto, tende a riportare i termini stranieri alla fonetica della propria lingua. Ed è così che da Christmas è venuto fuori cresemisso con il quale si designa un dono natalizio per il quale a Napoli mancava la parola equivalente a strenna.

Una storia tutta partenopea ha invece la parola nferta. Non si tratta, come molti credono, d’un termine che ha origine da “offerta”. Essa deriva dal latino infercio, da cui l’italiano ‘infarcire’, con il senso d’insaccare, riempire, metter dentro, ed è pertanto equivalente all’italiano ‘infarto’ ed al francese farce al quale noi dobbiamo il sostantivo farsa ben distinto dalla sua parente stretta, ch’è la farcia dei toscani. In particolare il nome nferta è dato all’opuscolo, al libretto, a mano o a stampa, che un autore confeziona per un capodanno come omaggio d’arte e buonaugurio ai suoi più cari amici. In esso vengono raccolte poesie o prose, commediole o canzonette, insomma tutto ciò che non sarebbe facile racchiudere in un’opera compiuta.
Tale tradizione sembra risalire al 1780, quando Luigi Serio, autore nello stesso anno del Vernacchio, scritto assai polemico in difesa della lingua popolare, pubblicò quella che risulta essere la prima nferta, intesa come un sovrappiù di giubilo e di festa da inserire nel canestro di pietanze e di dolciumi per nutrire anche l’ingegno, nella cornucopia d’ogni bene prodigato dal solstizio dell’inverno. Nel 1834 fu poi Giulio Genoino ad iniziarne una serie annua terminata solo nel 1856. Tra il 1837 e il 1842 videro la luce anche quelle di Michele Zezza e ad esse dettero seguito, tra gli altri, Luigi Cassitto, Domenico Iaccarino e Luigi Chiurazzi, fino a quando nel 1956, guidate da Max Vajro, ne ripristinarono l’abitudine ed il gusto le migliori penne di quel tempo.
Noi dell’Istituto linguistico italiano abbiamo avuto la fortuna di poter entrare nel 2004, come già fu per l’anno scorso, con il dono della nferta di Claudio Pennino, il nostro validissimo collaboratore che ne ha fatto omaggio ai suoi più cari amici raccogliendo cinque originali poesie, la riscrittura parziale della lirica di Andrew Marvell To his coy mistress e la traduzione da Seneca della prima lettera a Lucilio. La scelta si raduna intorno alla tematica del tempo che si perde, passa, ci consuma. E il poeta invita nel napoletano di cui è maestro a farne buon uso. Da qui il consiglio a chi ama, «cunzumammo ’o tiempo nuosto, / primma ca ’o tiempo ce cunzuma a nnuie», e altresì all’amico, «comme dicevano ’e viecchie nuoste, è troppo tarde sparagnà quanno s’è arrivate ô funno; pecché chello ca rummane nun sulo è poco, ma è pure ’o ppeggio».
In una plaquette di ventiquattro pagine serigrafate in soli 183 esemplari in carattere Garamond su carta Modigliani e in edizione non venale, Claudio Pennino ci regala versi che sono grani di saggezza, ovvero di virtù che ama scriversi sull’acqua. E nondimeno, sulle increspature d’onda d’una lingua non incline all’uso del futuro, che si compiace della presa del presente o ne rifugge nel passato, ci conforta questa nferta col paziente e colto suo lavoro. Del resto il più bel dono del poeta è di non lasciarci soli con i nostri giorni e, nel cesello delle sillabe ancestrali, il ritmo è periodicità che ci scandisce il tempo. Sappiamo che quando noi potremo dire di comprendere la vita essa sarà per noi finita, ma di fronte allo spettacolo dei cocci antichi ci rafforza la certezza che la creta e l’acqua continuano a ruotare tra le mani dei vasai.

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