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  Genealogia della vaiassa


Genealogia della vaiassa
di Amedeo Messina


La lingua napoletana ha molti termini per dire con un nome l'attività che oggi noi chiamiamo di collaborazione familiare. Una lista certo non completa deve almeno prevedere serva, vaiassa, criata, zambracca, femmena 'e servizzio, cammarera. In questo elenco solo quello di vaiassa sembra dare adito a incertezze, sia per quanto attiene alla sua origine, sia perché ha più d'un significato, designando al tempo stesso la sguattera sguaiata e la plebea sbraitante e rissaiola che ha per strada il proprio agone. Sull'origine del termine non c'è nessun accordo, se non sul fatto che il latino bassus non c'entra per niente, perché in età classica era usato solo in area campana come nome gentilizio e in età barbarica con il significato di persona obesa o corpulenta. Nulla indicava, dunque, la funzione propria di fantesca.

Pur di uscire dalle nebbie etimologiche si è andati, come ha fatto il D'Ascoli, a una immediata e strana equivalenza con bagassa che ha il significato di sgualdrina. La cosa è sconcertante perché, pur comprendendo che si tratta di un'età storica in cui le donne non potevano forzarsi all'onestà per sopravvivere e che vi era, per così dire, un'assoluta insufficienza di forza lavoro femminile, appare inverosimile che in casa si facesse entrare, come nulla fosse, una prestatrice d'opera dalla duplice funzione in quanto addetta ai servizi domestici e sessuali. Per giunta assegnandole un epiteto che fosse poi di pubblico dominio e per lei infamante.

Il colmo si raggiunge però con il Guaraldi che, nel suo La parlata napolitana (Napoli, 1982), asserisce addirittura che "vaiassa" sia parola nata per corruzione di "bagascia", come se fosse stato lecito o normale, tra l'XI e il XIII secolo, assumere sgualdrine assegnandole al disbrigo dei lavori in casa. Azione che sarebbe stata forse meritevole sul piano della pubblica morale, ma che, per giungere al passaggio di una semantica comune, implicherebbe una pratica devota e condivisa, a noi del tutto sconosciuta, parallela a quanto andavano svolgendo nel frattempo i monasteri cittadini che accoglievano moltissime "pentite".

Se col termine vaiassa si designa sia la serva che chi cede il proprio corpo in prestito d'uso vi sarà sicuramente un prima e un dopo, non essendo immaginabile la doppia prestazione fin dalla nascita della parola. Inoltre, se il vocabolo designa una fantesca, null'altro che il buon senso vuole una primogenitura di "vaiassa" in tale direzione e poi la sua caduta d'uso quando cominciò a indicare pure una sgualdrina, non essendo proponibile il contrario. E infine il D'Ascoli, per darci forse una nota comica, estrae dal suo cilindro di letture classiche il soldato punico Bagasus, tr amanda to da Silio Italico nel suo poema (V, 410), senza nemmeno dirci se ritiene che possa esserci un rapporto tra l'eroe di carta e la vaiassa.

Che tra i due termini ci sia stata vicinanza, oltre alla rima, non è certo dubitabile, e però la diversità semantica ci è documentata proprio dalla loro contemporanea persistenza sia nell'uso che nei testi. Il gran Cortese adopera agli inizi del Seicento sia vaiassa che baiassa, (e in verità pure il maschile vaiasso e vaiassone), a volte con valore spregiativo che però non giunge mai oltre il senso di servaccia, ovvero non si spinge fino al cambio funzionale proprio della prostituta. Significato che appartiene per intero, invece, alla bagassa, che figura, per addurre un solo esempio, nell'Antiprologo del Candelaio di Giordano Bruno, commedia del 1582 e capolavoro del teatro rinascimentale.

Volendo regalare ai miei pochissimi lettori un breve istante di allegria non mancherò di renderli avvertiti dell'onestà intellettuale di Francesco D'Ascoli che, dando alle stampe 'A malafemmena (Napoli, 2003), ha voluto rivedere quanto aveva scritto della vaiassa nel Nuovo vocabolario dialettale napoletano (Napoli, 1993), affermando che «Non è facile, anzi è impossibile, dare una spiegazione plausibile e definitiva di questo vocabolo. Il significato, si sa, è "serva", ma è l'origine che rimane piuttosto misteriosa. [...] La parola si dice imparentata con "bagascia", a sua volta dal provenzale bagassa che ha ormai la rispettabile età di almeno 4.000 anni [ sic! ]» (p. 132).

Sto correndo a cancellare quanto il D'Ascoli ebbe a scrivere in quel lemma del suo vocabolario e però subito mi assale una certezza. La recente correzione è più sbagliata dello stesso vecchio errore. Va bene revocare in dubbio vacillanti sicurezze, garantite solo dall'inchiostro tipografico, e però bisognerebbe pure darne un buon motivo. Da chi e come egli ha ricevuto tale grazia emendativa? Com'è giunto a questa sua resipiscenza? La ricerca scientifica procede, è vero, per congetture e confutazioni, se però di tutt'e due si danno informazioni e non fugaci e immotivati apprezzamenti.

Inoltre, subito dopo quell'orribile «si dice», il buon lettore dascoliano apprende che il provenzale bagassa avrebbe almeno quattromila anni. Che non sia un errore di stampa lo dimostra la presenza della "rispettabile età" e dunque bisogna credere che il D'Ascoli ritenga quella provenzale una lingua in uso da 40 secoli, oppure che il termine in questione sia presente in lessici più antichi di quelli accadici a noi noti. Sappiamo tutti che quello della bagassa è ritenuto dagli storici il mestiere più antico al mondo, ma ciò non autorizza a ritenere che lo sia anche un termine con cui lo si nomina e per giunta in provenzale! Tuttavia ritengo assai probabile che il D'Ascoli ci dia di ciò notizia in un suo prossimo lavoro.

Questa parola sembra avesse nella lingua d'oc il senso originario di 'borsaccia', provenendo da bag + -assa, per offrire una sineddoche eufemistica che sprezza l'organo consunto, invece della donna che ne ha fatto abuso per commercio o per piacere. Certo è che la parola ha sempre mantenuto un suo significato estremamente negativo, nel francese moderno come in italiano e nel napoletano, quanto meno designando in una donna grossolanità e scostumatezza. Il Novecento letterario ci ha fornito pure, con 'bagascio', una variante nel genere maschile per l'omosessuale che si prostituisce, come, per esempio, nell' Elettra di Gabriele D'Annunzio ( Le città del silenzio. Perugia , IV, 1). Insomma, nulla riesce a mettere in rapporto la bagascia con la partenopea vaiassa.

Ai cultori della napoletanità linguistica non deve essere sfuggito come il D'Ambra, e appresso l'Altamura, il Santella e il D'Ascoli, riportino, subito dopo il lemma di "vaiassa", una non meglio precisata origine dall'arabo baassa, di cui peraltro non forniscono nemmeno il senso originario. In realtà il D'Ambra dovette trarre tale congettura dalla XXXIII Dissertazione delle Antichità italiane di Ludovico Antonio Muratori, il quale, interrogandosi sull'etimo di "basso" con il significato di poco alto, inferiore, umile, depresso, vile, com'è anche nel francese bas e nell'inglese base, rifiutò proposte che volevano la nascita dal greco basis o dal latino bassus, suggerendo la sua provenienza da baassa.

Tuttavia tale vocabolo, che in arabo designa la persona che si umilia, si prosterna, si getta ai piedi di qualcuno in segno di umiltà o sottomissione, e in italiano, nel parere del grandissimo erudito di Vignola, avrebbe generato termini come bussare, basso ed abbassare, come ognuno può notare non presenta alcun semantico rapporto con "vaiassa". Singolare è invece che né il D'Ambra, né l'Altamura o il Santella e il D'Ascoli al suo seguito gregario, abbiano saputo scorgere in baassa l'origine di avascià = abbassare; vascio = 1. stanza a pianterreno, priva di sole, d'aria e di servizi, per secoli casa e bottega della povera gente; 2. basso; 3. giù, abbasso; e vasciaiola = donna che abita in un vascio, linguacciuta e litigiosa.

Dovremo dunque riconoscere col D'Ascoli l'impossibilità di offrire una credibile spiegazione al termine "vaiassa" e di gettare lumi sulla sua origine così che resti misteriosa? Penso di no e ritengo di poterne fornire un buon motivo. L'emerito Raffaele D'Ambra, tanto spesso saccheggiato e troppe volte offeso, addirittura dal D'Ascoli accusato di essere "scorrettissimo", incorreva in favorevoli intuizioni, anche se poi non sempre le metteva a frutto o non vi dedicava un'adeguata riflessione. Oltre alla baassa, nel suo Vocabolario napolitano-toscano (Napoli, 1873, p. 388), egli avanza anche l'ipotesi secondo cui "vaiassa" avrebbe origine dal termine latino « bàiula con la terminazione greca -assa » = portatrice di qualcosa di pesante sulla schiena o in braccio.

Devo rilevare, contro quest'ultima asserzione, che il suffisso -assa è largamente documentato in tutta l'area mediterranea, prima ancora del diffondersi della cultura ellenica e dei suoi dialetti, identificandosi con la voce accadica -issa per caratterizzare il femminile, al punto che i linguisti se ne servono per scorgere nei nomi ellenici con tale terminazione una evidente origine pregreca. Si aggiunga che in accadico c'è il verbo babâlu con il significato di condurre, trasportare, il quale in verità richiama fortemente quello latino baiulare che ha lo stesso senso.

Comunque la seconda ipotesi del D'Ambra, riportata e messa così alla pari con quella dell'etimo arabo, è da lui abbandonata alla casualità delle ricerche successive, quando egli doveva fare un solo passo avanti per risolvere l'enigma. Il peso naturale che la donna porta in grembo, in braccio o al collo è infatti il suo bambino. Ben altri nella storia ne ha dovuti ella portare e, in mezzo a questi, di sicuro c'è il neonato che a lei una madre affida perché gli dia il suo latte e poi lo svezzi e se ne prenda cura. Ed ecco che la bàiula, con caduta della 'u' e una prima metatesi, diventa bàlia e, nella Napoli del tempo, vailìa o vallìa e poi baiassa e vaiassa, dopo un probabile intermedio baillassa di cui non mi è riuscito di trovare attestazioni.

Forse è il caso di accennare anche a un san Bàiulo, non so se protettore delle bàlie o dei facchini, il cui martirio è celebrato il 20 dicembre. Ben presto accadde che al fardello materiale si aggiungesse quello metaforico del carico morale e allora nacquero parole come bàiulo, che Dante adopera per il portatore dell'aquila imperiale ( Paradiso , VI, 73) e per chiamare i sette re di Roma «quasi baiuli e tutori della sua puerizia» ( Convivio , IV, V, 11), e bàlio con cui si designarono i mariti delle bàlie, i pedagoghi e i precettori. E poi, di peso in peso si pervenne a dar del bàlio a chi doveva sostenere quello di un ufficio giurisdizionale straordinario o di un governo territoriale con autorità civili e giudiziarie. Fu così che col titolo di bàilo, si noti la seconda metatesi, venivano inviati alla corte di Bisanzio l'ambasciatore della repubblica di Venezia e quello di Firenze.

Passato nella lingua dei francesi, prima con bailler = portare, il termine divenne baile = governatore, che fu titolo ben presto conferito a ministri, reggenti e grandi dignitari. Da baile si passò a bailli, grado supremo in molti ordini cavallereschi e religiosi, e poi a baillie e fu nella forma di balìa che il termine tornò in Italia col significato della potestà assoluta, della piena signoria che sottopone tutti alla mercè autoritaria di qualcuno o di qualcosa. Quella di balivo fu in seguito la carica di nomina regia per cui, nell'ordinamento feudale, si era posti a capo di una intera circoscrizione territoriale.

Nella Napoli angioina il termine baiulus è attestato in documenti dal 1269 in poi col significato di amministratore delle rendite, dei censi e dei tributi del sovrano. Curia del bàiulo fu detto il tribunale ammini­stra­tivo competente per i reati con­tro il patrimonio di entità non superiore ai tre ducati. La Baillie ebbe prima residenza nel superstite pronao del tempio di Castore e Polluce, ovvero presso le scale della chiesa di san Paolo Maggiore, poi in un vicolo adiacente del quartiere san Giuseppe.

Il bisogno di riunire in unico edificio le diverse magistrature sparse lungo la via, che non a caso reca ancora oggi al plurale il nome dei Tribunali, portò nel 1540 anche la Bagliva in Castelcapuano.

Il trasferimento della sede giudiziaria provocò una innovazione toponomastica, per cui si continuava a dire Bagliva la sede giudiziaria, ma si definì Baglivo e poi Vaglivo il sito che ancora oggi ne conserva il nome nel quartiere san Giuseppe. La cosa ha una sua dimostrazione letteraria in Giambattista Basile che distingue, nelle sue Muse napolitane (1635), tra «la Bagliva» ( Clio , v. 214) e «lo Baglivo» ( Tersicore , v. 20), ovvero tra l'ufficio dove presentare una denuncia o attendersi giustizia e lo spazio urbano che dapprima l'ospitava. Dal momento che però da quasi cinque secoli non vi sono più palazzi di giustizia nell'antico decumano maggiore, inutilmente questa strada è detta ancora dei Tribunali. In pieno clima di recupero del centro storico di Napoli, sarebbe dunque lecito restituirgli il precedente e bellissimo suo nome di via del Sole e della Luna.

Tornando ora all'ipotesi per cui la bàiula ci ha dato bàlia e vallìa, ci si potrebbe chiedere perché vaiassa abbia poi smesso ogni rapporto tra il portare, la portatrice e il suo portato, per significare solo prima l'inserviente e dopo la plebea sguaiata. La cosa può essere spiegata, a mio parere, col persistere del termine latino nutrix = donna che allatta, nutre, alleva e che si disse e si continua a dire a Napoli nutriccia . Due parole designanti la medesima funzione erano eccessive e fu così che divorziarono ben presto, almeno io credo, l'una mantenendosi soltanto per la balia e l'altra per intendere la serva.

Ruolo, quest'ultimo, da cui venne nuovamente spodestata, per far posto prima, con l'arrivo degli spagnoli, alla criata, e poi, col trionfo della borghesia toscaneggiante, dalla cammarera. Allontanata a viva forza dal suo posto di servizio, alla vaiassa non rimase che una voce di protesta nelle strade, il suo contumeliarsi permanente soprattutto con le altre donne dei fondachi e dei bassi, a farne appìcceche e strascine, a mettere a revuoto un quartiere intero, tanto da ispirare addirittura una Vaiasseide a Giulio Cesare Cortese che nel 1612 la dette alle stampe e le sue ottave vennero ascoltate con gran gusto dalle corti, divertite dalla parodia servile dei nobili eroi proposti da ogni epopea celebrativa.

Spero d'aver chiarito con le origini da bàiula, da bàlia e da vallìa il senso antico del vocabolo "vaiassa". Il suo lungo itinerario ci consente anche di comprendere perché non abbia avuto mai successo nella forma maschile di "vaiasso". Destini divergenti dal "portare" originario. A Napoli le cose non sono andate come altrove e la vaiassa ha seguito una sua parabola diversa da quella del vastaso e della nutriccia. Tutti e tre accomunati dalla malasorte che a Napoli colpisce chi è costretto a lavorare, non importa se cedendo forza muscolare o il proprio latte. Solo sotto altri cieli poteva accadere che facchini e balie, con il tempo, avessero in potere tutto e tutti. Ma queste sono storie di parole e, in fin dei conti, non ce ne possiamo lamentare, se non passando ai fatti.