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Ancora sulla "pezza nfosa e 'o suricillo"

di Amedeo Messina

 

Mi sembra incauto affermare che alla lettera significhi questo o quello un vecchio adagio. L’affettuoso Raffaele Bracale, che ringrazio per i lusinghieri apprezzamenti volti alla mia nota, non può dimenticare che qualsiasi enunciato ha un proprio senso, variabile a seconda del tempo e del luogo in cui viene espresso e del locutore che lo proferisce. E non a caso egli riporta la diversa semantica di pezze suggeritagli da Carlo Iandolo, a proposito di quelle del passato rispetto a quelle d’oggi.
Inoltre a me l’adagio è pervenuto nella forma (1) mannaggia ’o suricillo e ’a pezza nfosa, identica a quella riportata dal D’Ascoli che però la cita senza articoli (2), e differente da quella riferita da Bracale come (3) mannaggia ô suricillo e ppezza nfosa. Un’altra è quella accreditata dal De Falco nei termini (4) mannaggia ’o suricillo ’e pezza ’nfosa e improponibile mi pare, infine, la versione pubblicata dallo Zazzera con un (5) mannaggi’ô suricillo e pezzanfosa.
Faccio subito osservare che la traduzione più precisa dell’adagio è in italiano la seguente: male ne abbia il sorcio e il panno intriso. L’imprecazione è per così dire ricaduta sulla parola stessa, essendo nell’antico male n’aggia, e pigliandosi pertanto un’autolesionistica sincope che l’ha ridotta al semplice mannaggia proferito da tanti napoletani senza che ne conoscano il significato. Si tenga conto pure del fatto che non va considerato errore l’uso della terza persona singolare del presente congiuntivo riferito a due o più persone, animali o cose. Liberiamoci senza indugio della ipotesi (5), perché non si comprende da dove possa trarre origine la fusione di una inesistente ‘a’ nel determinativo ’o, tale da poter generare la perdita dell’aferesi e un circonflesso ô. Operazione che sarebbe lecita se all’origine ci fosse un mannaggia a lo suricillo, ma la cosa non sussiste, in quanto è come se a un napoletano venisse in mente di affermare: “mal ne abbia al sorcio”. Ed è inutile ricorrere alla regola per cui al complemento si premette la preposizione ‘a’ quando è costituito da un nome proprio di persona, da un sostantivo di affinità o di parentela, da un pronome personale o che si riferisca a una persona, e tale non è certo un sorcio. Occorrerebbe poi poter credere a un errore tipografico, allorché ci s’imbatte nel termine ignoto pezzanfosa (sic!) tutto così legato, forse per effetto dell’umidità che l’aggettivo vi ha profuso.
Per quanto riguarda il D’Ascoli e l’ipotesi (2) sono del parere che Bracale, nella critica da lui espressa, non può correre a concludere che la ‘e’ sia certamente aferizzata. Nel testo dascoliano, infatti, il segno dell’aferesi non c’è. Quindi o si tratta di una congiunzione o di un errore tipografico e non credo che si possa facilmente propendere per il secondo caso, anche se la logica dell’ipotesi in esame l’imporrebbe, e dunque l’idea sarebbe “percorribile”, al contrario di quanto afferma il buon Bracale. Se in realtà quella ‘e’ avesse la sua bella aferesi l’adagio avrebbe il senso di maledire insieme il frustolo e lo straccio che lo produce. Esclamazione imprecativa che può ben stare sulle labbra d’una Cenerentola dei tempi andati.
Le ragioni del rigetto d’una tale ipotesi non stanno certo nella sua impossibilità, bensì nel fatto che riesce difficile dar credito al successo popolare di un adagio che ha valicato i secoli, se non incardinando il suo significato in un’esperienza collettiva espressa in una chiave metaforica compresa un po’ da tutti. Ieri per l’immediatezza del suo senso. Oggi quanto meno sul piano delle voci con cui dialoghiamo nell’inconscio.
Passando alla ipotesi (3), il ritorno del circonflesso nella scrittura di Bracale penso di poterlo attribuire ad una mera distrazione o alla potenza suggestiva della scelta “zazzarosa”. Corrisponde a una precisa scelta didattica, invece, il ribadire graficamente che dopo la congiunzione ‘e’ in napoletano si pronunziano rafforzate le consonanti. E appropriata si rivela tale scelta anche sul piano della strategia demolitoria dell’ipotesi interpretativa sostenuta dal De Falco nel suo Il Napoletanario, pubblicato dal compianto editore Colonnese, e consistente nell’attribuire all’enunciato il senso di fastidio per una pratica d’igiene personale tutt’al più approssimativa (4).
In tale ipotesi, infatti, il segno dell’aferesi preposta alla ‘e’ ne fa una preposizione indicativa di un complemento di specificazione o peggio ancora di materia, e ciò non è assolutamente sostenibile, perché non si è mai visto un sorcio che sia di panno intriso. Il De Falco potrà bensì affermare un causativo, perché quel suo topolino è di quel panno effetto, ma sarà smentito cum civem ex voce cognovisset, in quanto non c’è napoletano locutore dell’enunciato qui in in esame che pronunci la ‘p’ di pezza senza un suono geminato. Insomma, quella ‘e’ deve restare, come sempre è stata, una chiara congiunzione.
Sennonché il rimprovero serviva al vigile Bracale per invalidare l’ipotesi avanzata dal De Falco, ma in tal senso non mi sembra decisiva. Siamo innanzi a una censura certamente necessaria, e che però non si rivela sufficiente. Il benemerito avvocato, infatti, resterebbe del parere che la mite imprecazione fosse volta, quanto meno alle sue origini, al sorcetto epiteliale e al panno soffragante. E gli si dovrà pur riconoscere un acuto ingegno nello sbarazzarsi della stravaganza dello Zazzera e della bizzarria del D’Ascoli in un colpo solo.
Molto più semplicemente io sono del parere che l’antico adagio si volgesse per la prima volta dalle labbra d’una donna ricca di sagacia popolare per inveire contro le sventure della femminilità, cui solo la natura sembra imporre il suo destino, almeno nel parere di una ideologia, tuttora persistente, che la definisce per intero iscritta nella propria anatomia. Mi piace anche pensare che l’incomprensibilità del suo significato originario possa avere il senso del declino d’una tale ideologia patriarcale e maschilista.
Alcuni benevoli lettori della nota mi hanno scritto per sapere da dove mai abbia preso quello xurikilla quale capostipite vicario metaforico del pene e da cui faccio provenire il suricillo dell’adagio. Dovrei forse scusarmi per averli spinti a rovistare in polverosi dizionari di latino, alla ricerca di un’introvabile parola, ma non ne ho colpa. Se l’ho segnalata quale termine presente come IV, 8380, del Corpus Inscriptionum Latinarum, è perché si tratta d’un graffito rinvenuto una sola volta. Non avrei citato certo il CIL se la parola si trovasse sui vocabolari.
Nemmeno riesco a prendermela con Giorgio De Angelis che scrive accusandomi di aver coniato io stesso il termine latino. Al contrario, colgo in questa idea l’elogio immeritato di volermi giudicare un neologista. Di ciò posso solo ringraziarlo, al punto da donargli le opportune referenze per i suoi ulteriori studi di latinità, rinviandolo alla interpretazione che del termine ha fornito Matteo Della Corte inserendolo nel Corpus o alla breve nota in J. N. Adams, Il vocabolario del sesso a Roma, Lecce, 1996, p. 84. Un più recente articolo ne ha tratto Barbara Pastor Artigues, docente dell’università di Madrid, pubblicandolo sulla rivista di filologia classica dell’ateneo di Vienna: Xurikilla, “Tyche”, 15, 2000, pp. 109-110. A questo punto posso solo aggiungere gli auguri miei di buon lavoro.