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Parlar bene del 19 aprile 2008

Pari dignità tra lo scrivere e il parlare
a cura di Paola Ossorio

Il compito di discutere sul futuro della lingua o delle lingue che parleranno i nostri nipoti e di stabilire se sia o meno il caso di imparare a pronunciare un italiano uguale per tutti è un compito che tocca agli esperti.
Da parte mia vorrei soltanto dare il contributo delle mie esperienze in quanto persona che ha studiato e insegnato sia la lingua inglese che la pronuncia dell'italiano standard.
Ipotizziamo perciò che gli esperti si siano accordati sulla importanza di imparare a parlare, accanto al napoletano o al sardo, al veneto ecc., e accanto all'italiano regionale, anche l'italiano standard.
Quale problema incontriamo nei confronti della pronuncia?

Ne incontriamo parecchi, e di diversa natura, tecnici e psichici, e sono gli stessi che incontriamo nell'apprendimento di una lingua straniera. Non abbiamo la pazienza di applicarci a seguire un metodo e proviamo uno strano pudore a imitare la pronuncia dell'insegnante di madre lingua.
Questo però succede agli adulti, spesso anche ai giovani, e non ai bambini. Un bambino apprende con la massima facilità e naturalezza e pronuncia perfettamente senza provare il minimo imbarazzo. La lingua straniera quindi, ed è un fatto risaputo, dovrebbe essere appresa nei primi anni di vita, per potersi avvicinare al bilinguismo.

Un bambino di padre inglese e madre italiana, quando vede una scarpa, sente dire scarpa dalla mamma e shoe dal papà e associa quindi alla nozione di scarpa entrambe le parole. Quando il bambino parla, e sente affiorare nella mente la nozione di scarpa, con la sua forma, la sua funzione, anche l'odore, magari, seleziona automaticamente la parola giusta a seconda della persona che ha davanti. Passa direttamente dalla nozione alla parola in entrambe le lingue. Perciò parlerà fluentemente, con la pronuncia giusta e senza imbarazzo, entrambe le lingue.
Quando invece la lingua straniera si apprende tardi e le associazioni nozione-parola si sono già consolidate, si deve compiere un passaggio in più, prima nozione ® parola italiana, e poi parola italiana ® parola straniera. Di conseguenza si parla lentamente, ci si sente falsi e si capisce poco all'ascolto.
I metodi di apprendimento linguistico moderni cercano con vari sistemi di eliminare o di accelerare questo passaggio in più, ma richiedono tutti, comunque, molta disciplina, impegno e tempo.

Il discorso è identico per la pronuncia dell'italiano.
Se un bambino vede un oggetto di colore verde e sente la mamma e il papà pronunciare vèrde, con la è aperta, continuerà per tutta la vita ad associare al concetto di verde il suono della parola vèrde, con la è aperta. Se da grande vorrà imparare a dire vérde, secondo la pronuncia standard, dovrà far compiere al suo cervello il famoso passaggio in più. Nozione ® vèrde, e poi vèrde ® vérde. Qualcosa di simile a una traduzione.

Se da giovane o da adulto vorrà imparare ad usare con una certa naturalezza l'italiano standard, dovrà affidarsi a un metodo che tenda a eliminare o a velocizzare il più possibile questo passaggio in più, e solo dopo un costante esercizio potrà raggiungere risultati apprezzabili. La sua madre lingua, però, resterà sempre una, o il napoletano o l'italiano regionale, a seconda della lingua che prevalentemente si parlava in famiglia durante la sua infanzia. Credo che un buon test per capire quale sia la propria madre lingua sia un improvviso e violento attacco d'ira. Perdendo il controllo, la lingua in cui esprimiamo la nostra ira è sicuramente la nostra madre lingua!
Se ci avessero messi in contatto con la pronuncia standard fin da bambini i termini della questione sarebbero molto più sfumati.
In famiglia, però, giustamente, si parla quello che si parla, napoletano, italiano regionale, piemontese, lucano. Quello che è naturale.
Dove, se non a scuola, quindi, si può realizzare questa esposizione alla pronuncia standard della lingua italiana?

Credo che se un bambino delle scuole elementari sentisse pronunciare vèrde in casa e vérde a scuola, si comporterebbe come un bambino di madre italiana e padre inglese. Percepirebbe entrambe le pronunce come giuste e userebbe spontaneamente vérde a scuola e vèrde in casa. Se la maestra dice véro, cièlo, sufficiènte, sciènza, scuòla. anche lui a scuola dirà così, senza nemmeno accorgersene, perché la maestra è la maestra, è il suo esempio, è un modello autoritativo. Questo bambino nella vita parlerebbe due tipi di italiano, quello regionale e quello standard, e sarebbe a suo agio nei contesti più vari.

Nelle scuole medie inferiori e superiori, l'ascolto della pronuncia corretta da parte del docente non avrebbe come esito automatico la conversione fonetica dell'adolescente, ma avrebbe almeno l'importantissima funzione di mostrargli che la pronuncia corretta esiste ed è quella, e non è ridicola. Gli insegnerà che se sente dire "béne, trè, mi consénta" in televisione, vuol dire che sta ascoltando persone che pronunciano male l'italiano, e non persone culturalmente superiori solo perché non hanno l'accento meridionale.

A loro volta, però, gli insegnanti nel loro percorso di formazione non hanno ricevuto alcun insegnamento a tal riguardo. Sanno tante cose, forse le insegnano benissimo, ma usando ognuno la propria pronuncia di nativa o cui sono stati educati.
Andiamo dunque a monte, alle sedi in cui avviene la preparazione dei futuri docenti. Può essere soltanto là, a mio parere, l'inizio del processo. Non credo sia impensabile, nelle facoltà universitarie che insegnano a insegnare, pretendere un po' di attenzione alla pronuncia dell'italiano in chi sta in cattedra e in coloro che vi aspirano. In special modo a quella dei futuri docenti delle scuole primarie e dei docenti di lettere delle secondarie. Non sarebbe affatto complicato inserire l'ortoepia accanto all'ortografia, alla morfologia e alla sintassi. Per i futuri docenti di lingua straniera si fa, e con un certo rigore. Chi l'ha detto che la nostra lingua nazionale merita di meno?