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Editoriale del 20 giugno 2007

La dialettica infondata delle lingue
di Amedeo Messina

In un suo breve articolo, apparso a pag. 42 de Il Mattino del 28 giugno 2007, Nicola De Blasi afferma che fin dai tempi di padre Dante la storia linguistica italiana «[...] si è dipanata come interazione dialettica tra molteplicità e unità», lasciando i suoi lettori ben dubbiosi sulle modalità con cui codesta dialettica interazione si sarebbe mai potuta sviluppare tra molteplicità plurilinguistica delle varietà territoriali e l'unità rappresentata dal toscano illustre. I maestri della dialettica mi sembra abbiano insegnato che essa non si risolve affatto nell'idea dell'azione reciproca o in quella della solidarietà di forze opposte e del loro superamento. E nemmeno nell'idea di uno sviluppo che da solo si potenzia o di una qualità che collochi in un ordine del tutto nuovo un cambiamento perlopiù quantitativo. Della dialettica queste sono solo conseguenze o tutt'al più particolari aspetti.

Perché ci sia davvero interazione dialettica a me pare infatti che non possa essere proposta alla storia delle varie lingue alcuna finalità a priori, vale a dire la presenza di una totalità linguistica, in ciò che per natura propria vive in parti separate, quali sono per l'appunto i singoli linguaggi delle comunità locali. Reciprocità d'azione, e cioè vera dialettica, sarebbe stata possibile nella storia linguistica italiana solo se nei secoli si fosse data una coesione complessiva, permanente e solidale, in cui ogni idioma avesse avuto fitte relazioni con tutti gli altri e vi confluisse. Non c'è dialettica linguistica se non nell'àmbito di un campo dove si produca l'interscambio dei discorsi quotidiani e degli scritti letterari, che non sia la prospettiva di una lingua nazionale, quanto quella di un reciproco integrarsi. In Italia tutto questo non c'è stato. E per più motivi.

La storia linguistica italiana non ha conosciuto alcun processo che si possa definire d'interazione dialettica tra la molteplicità dei singoli linguaggi territoriali e l'unità della lingua nazionale. Pensare ad una cosa, calderone o melting pot , in cui dal brodo primordiale di latino e sulla base di sostanze dei sostrati vari e d'ingredienti d'altre lingue sopraggiunte e spezie dialettali si sia giunti al consommé dell'italiano, è tutt'al più un'ipotesi inventata a posteriori, ma destituita d'ogni fondamento. Non c'è mai stato, nella nostra penisola, nemmeno lo svolgersi del tipo e pluribus unum che giustifichi l'idea, di origine borghese e illuministica, di un ottimismo progressista con la quale la dialettica è confusa molto spesso. Sappiamo bene che l'unità d'Italia e l'obbligo scolastico del toscano furono il portato di una borghesia convinta di poter cogliere con queste due conquiste gli strumenti necessari al suo potere economico, politico e culturale. La padronanza del codice linguistico fu in primo luogo il comodo blasone della classe dominante, in tutto equivalente ai comportamenti non-verbali della liturgia dei chierici e della cortesia cavalleresca dei secoli pregressi.

Nei decenni successivi all'unità d'Italia e fino agli anni del miracolo economico il possesso di una buona competenza in italiano garantiva accessi alla cultura, ovvero a procedure di astrazione sempre più elevate, necessarie sia nel campo dei saperi umanistici e scientifici, sia in quello dei rapporti di produzione. Attualmente, quanto più c'inoltriamo nella società globalizzata o postmoderna che si voglia dire, più diminuisce quel prestigio un tempo attribuito al codice formale della lingua nazionale nelle proprie forme orali e scritte. Oggi prevalgono dovunque, non soltanto al cinema o alla televisione, sui giornali o nei romanzi, ma perfino nei licei, nelle università, nei tribunali e in parlamento, forme di linguaggio pragmatico-colloquiale mascherate di una democraticità che va di pari passo con quella dei consumi e dello spreco.

Assistiamo a un doppio fenomeno: da un lato codici linguistici specialistici che vanno in crescita veloce su livelli attingibili soltanto con processi cognitivi molto raffinati; dall'altro la caduta nel proliferare d'ogni genere di gerghi e neodialetti con un loro minimo quoziente d'astrazione. Accanto alla graduale dissolvenza di una lingua nazionale didatticamente normativa oggi trionfa una comunicazione quotidiana, intrisa di anomia e irrazionalità, la cui bandiera apologetica è innalzata dai fautori di una sedicente libera espressione della gioventù e dei ceti popolari, ma che trova le ragioni del successo nella realtà di un italiano dominato dai discorsi televisivi e politicanti oltre che dalle prose burocratiche e sindacalesi. Hanno allora un senso le proposte del passaggio a una scrittura in un inglese che ci aiuti non soltanto sui mercati, ma recuperì altresì le operazioni ove necessita un linguaggio in grado d'essere, allo stesso tempo, chiaro, scientifico e appena un poco astratto.

Quella intravista da De Blasi è una dialettica infondata. Non risulta da nessuna parte che ci sia stata nella storia della lingua nazionale un italiano come sintesi del toscano e dei linguaggi regionali. Nasce proprio da qui il carattere de facto e pleno iure della sola ufficialità dell'italiano, lingua ancora assai distante dal fiorire genuina sulle labbra dei suoi molti locutori. In tutta Italia, ancora adesso, quando c'è bisogno di un rifugio nel sentire proprio, nel buon senso antico, nelle fantasie dei sogni e delle fiabe, nell'esprimersi immediato, nell'ironico cachinno o nelle grandi sofferenze, affiorano spontanee le parole della lingua originaria che già fu degli antenati e la cui incessante melodia accompagna nel profondo i nostri giorni. Ecco perché qualsiasi linguaggio, sia esso italiano, inglese oppure russo, se non è contiguo a tutto ciò, se non riesce a svolgere funzioni al tempo stesso intime e comuni, sarà per noi comunque solo una struttura sintattica, un sistema semantico di segni equivalenti a formule neutrali.

Perché si possa trarre in ballo la nozione dell'interagire dialettico, in natura, nelle lingue o in altri campi, occorre ben chiarire di che cosa si sta parlando, tranne a non volere che la dialettica ritorni ad essere una fede metafisica o una fatalità superstiziosa. Una interazione linguistica è dialettica soltanto se ci sono intere comunità, insiemi sociali, storie, ovvero intere realtà che s'impongano a individui i quali, nello stesso tempo, inizino a discutere e pensare in dialogo costante tra di loro. Ciascuno nasce con la propria lingua e, a volte, con più lingue, ma può bensì impararne altre. Tuttavia una cosa è apprendere la materialità d'ogni linguaggio, com'è in questo secondo caso, ovvero quando si comprende l'altrui parola come veicolo di un significato che si fa proprio perché lo si traduce nella lingua originaria. Un'altra è assaporare tutto il senso di quell'unico linguaggio che ci costituisce nelle nostre individualità come persone appartenenti a una cultura con la quale interpretare gli altri e il mondo.