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Mescolanze e squarciagola
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  "Si può fare": la lingua come gingillo elettorale
  Un viaggio nel paese dei "dialetti": il Salento e le sue lingue

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  Pari dignità tra lo scrivere e il parlare

Colloqui coi napoletani
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Rosario Ruggiero

  I classici napoletani rivivono con Gaia

Cronache del napoletano
a cura di
Rosario Dello Iacovo

  Vitalità del napoletano
 

Napoletanità testimoniata

 

La canzone napoletana e la scelta politica del dialetto

   

Vitalità del napoletano

«Siamo fra le poche regioni italiane che non si sono ancora dotate di strumenti legislativi sulla lingua, né tanto meno i linguaggi della Campania rientrano nel novero delle cosiddette lingue minoritarie, che godono dei vantaggi delle regioni a statuto speciale». Lo rivela Amedeo Messina, presidente dell'Istituto Linguistico Campano (www.ilc.it), promotore di un progetto di legge bipartisan "Per favorire l'ingresso del napoletano nel novero delle lingue minoritarie tutelate dalla Repubblica Italiana" , presentato da Sergio Cola, deputato di An, e Vincenzo Siniscalchi, deputato Ds, rimasto però lettera morta e mai discusso dalla Commissione Affari istituzionali.

Quella del napoletano e degli altri linguaggi della Campania è una vicenda per molti aspetti paradossale. Da un lato strumenti vivissimi tanto nella comunicazione interpersonale, con oltre sei milioni di parlanti, quanto nella produzione culturale; dall'altro idiomi senza alcun tipo di riconoscimento istituzionale ai quali è precluso l'insegnamento nelle scuole, se non nelle forme permesse a ciascun istituto dall'autonomia didattica, come avviene con 2 ore settimanali alla scuola media «Sogliano» di Napoli per opera dell'ecologista Ermes Ferraro.

Eppure i dialetti vivono una straordinaria stagione d'interesse. In contrasto con le catastrofiche previsioni di qualche anno fa, secondo le quali sarebbero scomparsi, le nuove generazioni li parlano abitualmente con dimestichezza, alternandoli con l'italiano e le lingue diffuse a livello internazionale, nel contesto di un continuum omogeneo. Quasi che il complesso d'inferiorità, la «vergogna» per il proprio idioma locale sia stato in qualche modo rimosso da chi ha raggiunto pienamente l'italofonia.

È soprattutto il caso dei gruppi musicali napoletani dagli anni novanta del secolo scorso a oggi, quando in primis 99 Posse e Almagretta, cominciano a cantare in dialetto, inserendolo in un contesto musicale che affonda le proprie radici nella tradizione locale, ma anche altrove. Semplificando: se Pino Daniele e la sua generazione degli anni '70 cantano in napoletano perché parlano napoletano, per i gruppi della seconda ondata, i cui cantanti sono prevalentemente italofoni, il dialetto è una scelta consapevole. Opzione condivisa addirittura da gruppi heavy-metal , genere che guarda tradizionalmente all'inglese come lingua naturale e universale, come in « fravecatore » e altri brani dei « E capruun » gruppo di culto della scena locale, ora sciolto.

Tradizione e innovazione. Se da un lato Raiz sembra assolutamente in linea con il cantato a fronna 'e limone , dall'altro ci sono il dub, il reggae, il rap e la dance, come insostituibili ingredienti di un ibrido che riflette la circolazione globale dei codici musicali e delle culture. «Da bambino parlavo in italiano - dice Rino "Raiz" Della Volpe - anche perché fino a 14 anni ho vissuto a Milano, ma avevo il riferimento di mia nonna nata e cresciuta ai quartieri spagnoli, che usava quasi esclusivamente il napoletano». Forse è per questo che la lingua degli Almamegretta presenta termini più arcaici come il verbo nzurà (dal latino in uxorare ) e in generale una realizzazione fonetica più vicina al napoletano tradizionale, quasi una nostalgia per l'idioma degli affetti e della città originaria. Cosa che, tuttavia, non impedisce a Rino di utilizzare in altre strofe, l'italiano o l'inglese.

Anche per Luca «Zulù» Persico dei 99 Posse quella del dialetto è una scelta, nel suo caso probabilmente dettata dal voler utilizzare un idioma parlato dalle classi meno abbienti della nostra regione, una sorta di processo di identificazione. Anche nel suo caso, sia coi 99 Posse che con la successiva esperienza di Al Mukawama, il napoletano si contamina con lingue europee come l'inglese e lo spagnolo, ma anche con l'arabo a partire dallo stesso nome del progetto che significa «la resistenza».

«Negli anni '80, quand'ero bambino, se parlavi in napoletano eri etichettato come uno di scarsa cultura, oggi invece il dialetto è trendy ». Lo dice in italiano Speaker Cenzou, parlando del dialetto e utilizza come chiosa un termine inglese. Non potrebbe trovare un esempio più efficace del melting pot di linguaggi, dentro il quale va inquadrato ogni possibile discorso sulla lingua oggi. Speaker Cenzou, per gli amici Zu, al secolo Vincenzo Artigiano, rapper storico della scena hip-hop napoletana, il cui percorso artistico ha attraversato per oltre un decennio le esperienze di Ktm, La Famiglia , Malastrada e 99 Posse. Enzo è cresciuto nel ventre di Napoli, a San Gaetano, e parla perfettamente italiano, la lingua che gli hanno insegnato a scuola, ma ancora di più in famiglia, a colpi di «parla bene», per dire «non parlare in dialetto», un'espressione abituale nelle case dei napoletani. Ma quando vuole Zu si esprime in un dialetto dai toni molto popolari. Di genere nuovo però, precisa: «un miscuglio di espressioni gergali della mia paranza e parole straniere, diluito nel mare magnum del napoletano giovanile contemporaneo».

Gli fa eco Francesco Di Bella dei 24 Grana: « È la poesia della strada che ti spinge a comunicare in dialetto, noi alla fine siamo guagliune del centro storico, il nostro ambito linguistico è lo slang». Il napulegno , a cui entrambi alludono, è una variante caratterizzata da parole accorciate al massimo della soglia di significazione. Nel quale, le vocali non accentate finiscono per diventare quasi tutte «schwa», lettera dell'alfabeto ebraico che corrisponde alla vocale centrale indistinta che troviamo alla fine di 'o puorto o in Napule , parole che scriviamo utilizzando impropriamente i segni grafici dell'italiano, ma che un parlante napoletano conosce nella loro vera realizzazione fonetica.

«Sarebbe opportuna una legge regionale che permettesse l'insegnamento dei dialetti a scuola - dice Patricia Bianchi, docente universitaria e componente con Nicola De Blasi e Pietro Maturi del team accademico della Federico II che sta dedicando grandi energie allo studio dei dialetti urbani -. Ma attenzione: non andiamo nelle scuole della Sanità per insegnare il napoletano "alto" della tradizione ottocentesca, rispettiamo quella varietà di napoletano che i ragazzi hanno come lingua materna. Lo stesso discorso vale per una scuola dell'avellinese o del Sannio, che giustamente si ribellerebbe all'imposizione di un modello napoletano di dialetto».