<%@LANGUAGE="JAVASCRIPT" CODEPAGE="1252"%> Istituto Linguistico Campano
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da sinistra a destra:
R. D'Ajello, on. S. Cola, R. Di Palma, E. Puntillo, P. Maturi, A. Messina,
C. Pennino
 
momento del convegno

 

Pareri sul convegno che si è svolto venerdì 3 ottobre 2003
in san Giorgio dei Genovesi a Napoli


"Come sta il napoletano?"
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Chiedersi “come sta il napoletano?” e discutere sull’uso dell’idioma che viene parlato (e talvolta anche scritto, poetato, cantato) da circa 6 milioni di abitanti della Campania, più chissà da quante altre migliaia sparsi per il mondo, significa porsi una bella serie di problemi letterari e scientifici. Il che è cosa assai lontana da ogni “leghismo linguistico”, non solo perché trattasi di un idioma meridionale, ma per le particolari caratteristiche del linguaggio nostrano, suddiviso in vieppiù dialetti con sensibili differenze nel territorio regionale e fra i quartieri dello stesso capoluogo.
Bisogna chiedersi come sta il napoletano quando esso rivive in modo originale nella poesia contemporanea, come quella di Michele Sovente (Premio Viareggio 1998) che porta sullo stesso piano il latino, l’italiano e il linguaggio flegreo, raggiungendo un alto grado di suggestione e di cultura, o di Mariano Bàino che continua ad adoperare insieme parole napoletane e italiane, nella ricerca continua dell’espressione sempre più matura, ironica, efficace. E quando Roberto De Simone volge in un dialetto moderno di sua elaborazione quel Cunto de li Cunti di Giovanbattista Basile, scritto in un idioma napoletano seicentesco per noi oggi assai difficile da comprendere, ma che non fu affatto di ostacolo alla conoscenza da parte dell’Europa colta del ’700, viste le traduzioni e i riassunti che se ne fecero per esempio in Germania, dove attinsero favolisti come i fratelli Grimm.
L’idioma napoletano peraltro mostra di voler riemergere dal ghetto del linguaggio solo canzonettistico o solo popolare nel quale per molti decenni si è tentato di relegarlo, compiendo una operazione di stupida prevaricazione all’insegna dell’unità linguistica nazionale. La quale può benissimo convivere con gli idiomi locali – e con il napoletano in particolare – ma, come tutte le imposizioni ideologiche, continua a conseguire esiti fallimentari. Enorme è il numero di italiani che non sanno esprimere correttamente un concetto in italiano e che, peggio ancora, non comprendono del tutto il significato di quello che viene loro detto nella lingua ufficiale. Anche per questo è da considerare estremamente positiva l’esperienza di quegli insegnanti che nelle scuole usano partire dal dialetto locale per insegnare la lingua nazionale.
La riemersione dell’idioma napoletano è andata di pari passo con la riconquista di un sentimento di appartenenza, con la rivalutazione del patrimonio culturale e della dignità cittadina, con quel complesso di avvenimenti, raggiungimenti, prese di coscienza politica, recuperi di dignità cittadina, definito “rinascimento napoletano”, espressione forse eccessiva, ma che rende l’idea delle novità realizzatesi dal 1992 ad oggi.
Spiccano, nel quadro della riemersione idiomatica, iniziative mercantili quali la vendita di shirt e gadget vari con scritte in napoletano, e soprattutto recenti campagne pubblicitarie come quella relativa all’Arte-card, ovvero il biglietto unico per Musei e trasporti pubblici, dove sono state usate espressioni come “dicintencello vuje” o “scetateve guagliune”. Va sottolineato che la campagna pubblicitaria è stata commissionata da una istituzione pubblica e riguarda attività culturali e turistiche di alto livello.
Da salutare quindi con estremo interesse l’istituzione di un corso di dialettologia e letteratura napoletana presso la Facoltà di Sociologia dell’Università Federico II. E fra le notizie positive nell’ambito scientifico va segnalata l’intesa fra la Rai, la Regione, il Comune e la Provincia che ha dato vita all’Archivio Sonoro, ovvero una colossale biblioteca pubblica che viene realizzata con il riversamento dei 15mila titoli finora rinvenuti nelle nastroteche della Rai, con la ricerca di altri materiali e con gli apporti anche dei privati e delle aziende musicali.

Eleonora Puntillo

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Ciao, egregio presidente Messina, nonché caro Amedeo,
il primo incontro col neonato istituto mi ha visto attento partecipe di questa iniziativa che mi sembra importante e difficile nella sua attuazione. Sull’importanza non sprecherò ditate sulla tastiera; sulla difficoltà credo che venga nutrita dalle tante iniziative analoghe che, importanti e in ritardo rispetto alle esigenze in essa rinchiuse, si addossa dei decenni di tentativi e frustrazioni della incapacità di organicizzare studi, interessi e ricerca su un’area linguistica così viva e attuale.
D’altra parte l’enorme valore comunicativo della lingua napoletana risiede nel suo forte legame con le emozioni, al contrario della lingua italiana di massa, quella televisiva e di tante testate nazionali, principalmente funzionale agli attuali valori di mercato e di immagine. Questo primo punto, il napoletano come lingua delle emozioni, mi sembra un primo tema sul quale sarebbe interessante dibattere.
Non so se è giusto il mio punto di vista ma io sento il napoletano come una lingua a 3 dimensioni:
quella gestuale e somatica (può bastare, per alcune espressioni, un gesto della mano accompagnato da una complementare espressione degli occhi a volte è sufficiente per commentare o giudicare, senza usare parole; se avessero tolto l’audio al tuo intervento, non si sarebbero capite le parole, ma si sarebbero capite alcune intenzioni e sicuramente che provenivano da un napoletano, a scapito del tuo italiano forbito e attento);
quella sonora (come per tutte le lingue che hanno il loro “suono”);
quella enfatica (un grammelot in napoletano credo che sia abbastanza facile per chi lo pratichi e facile da seguire per chi lo ascoltasse).
Anche se è chiaro che il mio è un punto di vista di chi tratta di suoni, credo che gli argomenti possano essere di interesse più vasto; così, come per la musica, il napoletano è lingua di difficile trascrizione nel suo essere lingua viva; e poi come è possibile trascriverne i gesti o l’enfasi?
Credo che anche per questo risulta più difficile tradurre dal napoletano all’italiano che al contrario.
Quello napoletano, quindi, è un linguaggio fortemente gestuale. Ha una spinta sonora diversa, dovuta, oltre che per suddetta spinta emozionale, anche perché è lingua della comunità e non della nazione, non di quella partenopea, che non esiste, ma tanto meno di quella italiana.
Nasce, in alcuni suoi aspetti come quella della parlata dei ladri d’inizio secolo scorso e della parlesia dei musici “baconi” come un “double talking” simile, nel suo utilizzo, allo slang del Blues o al Jive del ghetto di Harlem, quindi legato alla clandestinità e all’attenzione rivolta, nello stesso luogo, a escludere, intenzionalmente, la comprensione di alcune persone.
In questo senso lingua delle comunità, perciò così variegata tra zona e zona, nei condomini e nei diversi piani dello stesso palazzo, quando vengono a convivere persone dalla provenienza concittadina ma di diverso quartiere; la cui sintesi avveniva, a volte ancora avviene nell’“attività di cortile” come nei rioni più popolari.
Infatti sappiamo, come i nostri “vicini” mediorientali, che il concetto di nazione e quello di comunità contrastano nella loro genesi costitutiva: la nazione nasce dall’alto, quella della comunità dal basso; la nazione è un’esigenza imposta da fattori organizzativi legati agli interessi economici del grande capitale, la comunità da quelli di interrelazione umana (… un po’ come il prodotto dell’industria e quello dell’artigianato?...).
La concezione nazionalistica di paesi come l’Italia ha assunto, per numerose comunità preesistenti da lungo tempo, una valenza di colonizzazione sociologica. Un esempio. Dicevo “vicini”, ma con analogie più esplosive è la contraddizione esistente tra lo stato di Israele imposto nell’area delle comunità palestinesi: le comunità israeliane sono state molto vicine a quelle arabe nella loro struttura originaria. La storia delle loro comunità ha attraversato fasi diverse durante il tempo, ed è stata imposta nello stesso luogo in forma di nazione, quella israelita, dove le comunità erano rimaste in loco conservando la loro forte connotazione comunitaria, per quanto si parli di nazione palestinese. Il rifiuto palestinese non è rivolto alle comunità ebraiche, quanto all’imposizione di carattere economico della nazione imposta come modello economico. «Perché al di là di tutte le ciance sull’identità nazionale, che le dittature militari cercano di imporre con la violenza, esiste qualcosa di autentico, di antico, che è proibito colpire. Gli arabi sono creature troppo libere e amanti delle distese aperte per venire costretti in un contesto nazionale» (dott.Miller in “La Sposa Liberata” di A.B.Yehoshua, p. 423).
Il napoletano ha saputo sempre accogliere diversamente le dominazioni, spesso con lo sberleffo, ma anche producendo valori riconosciuti; a esempio nel mio campo è notevole il perpetuarsi del napoletano su strutture musicali “estere”, da quando Napoli non è più luogo della “ricerca musicale”. Così è per Carosone, James Senese, Pino Daniele, neo-melodici e rappers nostrani. Ai tempi di Mozart era quasi il contrario. Un adeguamento legato all’esigenza del contingente, non male per una lingua in cui non c’è una vera desinenza che coniughi il futuro, usandone una che suona di condizionale …(Nino Leoni).

Restando in ambito filomusicale, il rapporto attuale tra il napoletano e l’italiano presenta alcune analogie con quello tra la musica popolare e quella colta dell’epoca barocca; anche la sua tridimensionalità suddetta sembra essere una riaffermazione della natura profondamente barocca della cultura partenopea.
Mi viene da chiedere, allora, chi usa solo o prevalentemente il napoletano?
1) Coloro i quali non sono in grado di usare l’italiano nella stessa funzione con cui usano il dialetto, ad esempio quando si arrabbiano. Sorge qui una curiosa differenziazione tra il linguaggio istintuale e quello … meditato.
2) Gli intellettuali e i filologi (Gloria e valore all’operazione di Roberto De Simone sul Pentamerone di Basile anche sulle revisioni dell’italiano crociano. A proposito, perché non coinvolgerlo?
3) I frequentatori di cenacoli piccolo-borghesi, tipo club inglesi dalla spiccata atmosfera borbonico-conservatrice (mi piace la pipa, ma i tornei di “Lentofumo” mi sembrano similmente ridicoli).
Ne ricordo un quarto uso nel ’68 avvenuto, credo, per un avvicinamento “politico” alla parlata napoletana. Nel tentativo di un approccio verso la cultura proletaria, i sinistresi delle famiglie-bene lo utilizzavano come elemento di trasgressione, come atteggiamento avverso al “parlar bene”.
Insomma questo vostro primo convegno, se non altro per avermi mosso a queste considerazioni, mi sembra già un mio personale grande successo. Scusa se le ho scritte di getto, in modo un po’ confuso e grossolano e confuso, ma credimi, c’è dentro tutta la mia passione.

Alla prossima occasione.

Enzo Nini

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La difesa dei linguaggi regionali: principale obiettivo
dell’Istituto Linguistico Campano

Lo scorso 3 ottobre, con un convegno tenutosi presso la Chiesa di San Giorgio dei Genovesi -sede dell’Università Parthenope- in via Medina a Napoli, l’Istituto Linguistico Campano ha presentato il suo programma di attività per il 2003-2004. Sorto come associazione senza scopo di lucro, si propone di organizzare, realizzare e gestire attività volte a diffondere la conoscenza delle culture della Campania, nelle loro manifestazioni antiche e attuali. In particolare, come sottolinea il presidente Amedeo Messina: «l’Istituto è interessato alla difesa e alla diffusione del patrimonio linguistico regionale, sottraendolo ai tentativi in atto di ridurlo a pura testimonianza folclorica o archeologica, e proponendolo, invece, come oggetto di apprendimento e mezzo veicolare di comunicazione».
Sulla base di queste premesse, il titolo del convegno che ha inaugurato l’Istituto, “Come sta il napoletano?”, acquista il senso di una preoccupata provocazione alla quale hanno cercato di dare una risposta, sulla scorta delle differenti esperienze intellettuali e in base agli ambiti di studio di diversa provenienza, i relatori intervenuti al dibattito: studiosi e politici napoletani che, chi per un motivo chi per un altro, si sentono legati alle sorti e al futuro del nostro dialetto. Politici, come ad esempio Sergio Cola, deputato al Parlamento nelle file di An, o come Vincenzo Siniscalchi, deputato Ds, promotori del progetto di legge “Per favorire l’ingresso del napoletano nel novero delle lingue minoritarie tutelate dalla Repubblica Italiana”. O ancora come Riccardo Di Palma, vicecommissario di governo al sottosuolo del Comune di Napoli. Accanto a loro studiosi come Roberto D’Ajello, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Napoli, appassionato cultore del dialetto, anche se autodefinitosi «dilettante», e fine traduttore –dalla lingua originaria al napoletano- di tre fiabe appartenenti ai capolavori della letteratura mondiale: “Pinocchio” di Carlo Collodi; “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carrol; e “Il piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry; nonché ironico compositore di epigrammi con cui sembra combattere l’attuale disagio della magistratura. E poi Eleonora Puntillo, scrittrice e giornalista del Corriere del Mezzogiorno, presente in veste di moderatrice del dibattito, e ancora Vittorio Dini, docente di Storia della Filosofia e Dottrine Politiche e Sociali, presso l’Università di Salerno e Pietro Maturi, docente di Linguistica Italiana presso l’Università di Napoli “Federico II”.
Gli onorevoli Sergio Cola e Vincenzo Siniscalchi hanno assicurato la platea che faranno di tutto in parlamento perché la legge sia approvata entro la fine della legislatura, sia pure con una maggioranza trasversale, soprattutto necessaria per l’opposizione prevedibile non solo dei soliti leghisti, ma pure, ed è cosa sulla quale occorre meditare, di molti parlamentari meridionali. L’intervento del dott. Riccardo Di Palma è stato un contributo sullo stato di indifferenza istituzionale in cui si muove la questione dei linguaggi regionali. La maggioranza degli amministratori dei nostri enti locali, egli afferma, sembra guardare con sospetto alle richieste di sostegno e di tutela dei linguaggi della Campania e occorre perciò moltiplicare e unificare le iniziative tese a porre il problema e a proporre soluzioni interessanti.
Alla domanda posta con forza sullo stato di salute del nostro dialetto, i relatori hanno risposto tutti più o meno concordando su alcuni punti fondamentali. Primo fra tutti, l’assurda mancanza di una legge regionale a tutela delle tradizioni linguistiche, delle diverse parlate e, di conseguenza, dell’intero patrimonio culturale campano: sia esso letterario, poetico, teatrale, narrativo, musicale. Come sta, dunque, il napoletano? Date tali premesse, sembrerebbe non godere proprio di una salute invidiabile, anche se la cura rivolta alla lingua da poeti e drammaturghi dimostra che in Campania, al di là di ogni previsione pessimistica, tanto il teatro quanto la poesia e la canzone sono vivi. Secondo D’Ajello, comunque: «È un quesito che bisognerebbe porre al popolo dei vicoli: il napoletano, infatti, non è più da tempo la lingua della borghesia». Forse per questo, ha aggiunto il magistrato, «non si creano più parole nuove. Così come vocaboli vecchi, che in qualche caso sarebbero da riesumare, scompaiono del tutto. Altre parole, invece, si imbastardiscono, altre assimilano suoni anglofoni, con il rischio che il napoletano diventi un italiano storpiato o riadattato a mo’ di slang zeppo di angloamericanismi». Insomma, si corre il pericolo di perdere un patrimonio linguistico enorme. Un pericolo reso tanto più grave dalla mancanza di regole codificate e di una “grammatica” che stabilisca dei criteri, soprattutto rispetto al napoletano scritto, come pure dalla mancanza dell’insegnamento del dialetto nelle scuole. Tale insegnamento a Napoli manca del tutto, e la cosa risulta ancora più incredibile, se si pensa che il napoletano si insegna in svariati Istituti di Cultura di tutto il mondo, in numerosi Conservatori di Musica e addirittura in Giappone e in Scandinavia. «Certo, un insegnamento di questo tipo –ha aggiunto ancora D’Ajello- comporterebbe degli oneri economici, un incremento del corpo insegnanti, ecc.; ma questi problemi potrebbero essere risolti dalla eventuale approvazione del progetto di legge Cola-Siniscalchi per favorire l’ingresso del napoletano nel novero delle lingue minoritarie tutelate dalla Repubblica Italiana».
Secondo il prof. Vittorio Dini, invece, «non c’è bisogno di una legge che tuteli il napoletano come minoranza linguistica delimitata territorialmente, perché in questa lingua si rappresentano un’identità e un popolo che vanno al di là della mera territorialità. Inoltre, non dobbiamo fare del napoletano una rocca chiusa e conservativa, ma un patrimonio che deve trovare la curiosità a più livelli. L’Istituto Linguistico Campano, per esempio, è la sede opportuna per promuovere un livello alto della lingua napoletana e per restituire agli studiosi e agli esperti, ai drammaturghi e ai poeti, un luogo dove finalmente potersi incontrare per discutere e confrontare le loro esperienze di ricerca e di studio, cui attingere con l’obiettivo di formulare proposte per la rinascita di una lingua che, nonostante le tante difficoltà, dimostra non solo di non essere morta, ma di voler vivere ancora a lungo».
Per il prof. Pietro Maturi: «l’equazione napoletano uguale camorra è inaccettabile, perché sarebbe come porre sullo stesso piano la camorra e il popolo, il teatro, la letteratura, la musica e tutto ciò che fa parte di Napoli. Un’idea assurda se si pensa che, fino a quasi cento anni fa, nobili, borghesi e plebei parlavano quotidianamente il napoletano, perché la lingua rappresentava, allora, tutta la società partenopea. Certo, poi sono arrivati gli anni ’60 e ’70, con la loro onda d’urto rivoluzionaria che ha stravolto cultura e costumi. E così la rivolta giovanile non risparmiò neanche il napoletano, che fu additato come la lingua dei vecchi, lingua di un mondo patriarcale, obsoleto e da abbattere. Chi ascoltava il rock in quegli anni, ad esempio, mai avrebbe sospettato che oggi sarebbero sorti gruppi di musica rock in napoletano. Ma se la borghesia attuale, proveniente per la gran parte direttamente da quelle esperienze, ha ripudiato in un certo senso il napoletano, il popolo non lo ha fatto. E non hanno ripudiato il napoletano neanche gli artisti e i giovani: all’interno delle diverse esperienze artistiche, gli uni, dei media gli altri». Un dato importante in quanto, sia i ragazzi, che si scambiano sempre più sms in dialetto, che gli artisti, con il napoletano “rimasticato” delle loro opere, stanno dimostrando che il napoletano è una lingua comunque viva. Certo, si tratta di quel napoletano nuovo, un po’ sbilenco, che risente certamente della mancanza di una grammatica capace di dare indicazioni precise a chi lo legge e soprattutto a chi lo scrive. Un napoletano che si difende agglutinando a sé parole di diversa provenienza linguistica, e perciò ricco di neologismi e intriso di quello slang anglo-partenopeo che, se in certi casi dona una certa freschezza, un certo ritmo e rotondità, rischia però, se in eccesso, di inaridire la sostanziale bellezza del dialetto. Ma un napoletano che testimonia, comunque, della vivacità della lingua. Per quanto riguarda poi sia la legge regionale che la redazione di un corpus di regole grammaticali, il prof. Maturi dice: «Proporrei una legge di conservazione e promozione di tutti i dialetti, mentre ho delle perplessità sulla possibilità di applicazione di una norma cogente al linguaggio. La norma, infatti, è nel linguaggio stesso, per cui bisognerebbe vedere, poi, se i napoletani siano disposti a cambiare il loro modo di parlare o di scrivere in funzione della norma».
La tutela giuridica del dialetto avvierebbe, afferma Amedeo Messina, la risoluzione del fenomeno di “colonizzazione” del napoletano da parte delle organizzazioni camorristiche, che da un lato se ne sono impadronite, in assenza di un messaggio forte ed autorevole e, dall’altro, lo hanno sempre più deturpato attraverso l’utilizzo della cultura locale come fonte di propaganda e di indotti finanziari criminali, dando vita ad un processo lento ma finora inarrestabile che, come è noto, ha bloccato anche il normale sviluppo della società civile partenopea nel corso degli ultimi cinquant’anni. Inoltre: «la sempre più frequente invadenza, anche in tv private, di una versione “plebea” della cultura napoletana, auspicata dalla camorra e contraddistinta da elementi d’aggressività e qualunquismo culturale, sta provocando un gravissimo fenomeno dissociativo. La maggioranza dei cittadini, infatti, rifiutando ogni rapporto con tali rappresentazioni, preferisce rimuovere l’uso pubblico della lingua, optando in tal modo per un’autocensura culturale. Tale rimozione linguistica, estendendosi rapidamente da un ambito personale e familiare ad un ambito comunitario, sta minacciando oggi la trasmissione generazionale del napoletano alla quale, come in qualsiasi altra lingua, è legata strettamente la sua sopravvivenza». Una legge che non manca alle altre regioni, specie del nord, dice con rammarico il prof. Messina, che continua: «i mille anni di storia di una lingua come quella napoletana, ricca oggi di non meno di 6milioni di parlanti, e nobile per la sua antica e sempre nuova cultura, meritano, a nostro avviso, molto più di un riconoscimento legislativo. Occorre principalmente che questo patrimonio linguistico la gente impari a leggerlo e scriverlo, perché non c’è lingua che resti viva se non si scrive. Soltanto così potremo riappropriarci della nostra identità culturale». E l’identità culturale di un popolo -la sua Storia, le sue tradizioni, i suoi costumi, la sua arte- è la sua lingua. Del resto, basti pensare che le lingue nazionali non sono che l’espressione della supremazia politica di un dialetto su tutti gli altri; ma solo le lingue regionali, provenienti da profonde e mai soppresse tradizioni, sanno tener viva la libera ed autentica parola di un popolo e dei suoi protagonisti. Lo scenario internazionale tendente all’omologazione e al villaggio globale impone all’ordine del giorno il bisogno di riconoscere la lingua napoletana come un elemento imprescindibile del patrimonio culturale della città partenopea. «Sarebbe sufficiente ricordare che la gran parte della produzione drammaturgica, poetica e musicale avviene, ancor oggi, in questa lingua. Essa circola nel mondo, garantendo non soltanto immagine ma, ciò che più conta, anche un cospicuo reddito all’Italia intera. Il tutto però privo dell’insegnamento necessario». Tanto a destra quanto a sinistra è mancata, almeno fino ad oggi, la reale comprensione del problema, al punto che, come già si accennava prima, la Campania è tra le poche regioni –le altre sono tutte o quasi del sud- a non avere ancora una legge che tuteli l’insieme dei propri linguaggi.

di Vincenzo Morvillo