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Lo scempio dei dialetti
di Elisa York
 



Lo scrittore
Giuseppe Montesano

Faccio parte della schiera di fervidi lettori dei romanzi di Giuseppe Montesano fin dalla pubblicazione di A capofitto con cui esordì nel 1996, ma qui voglio interrogare il cosiddetto bilinguismo narrativo ben presente in testi come Nel corpo di Napoli e Di questa vita menzognera . La critica ha discusso di essi a lungo e con unanimità di elogi, anche se questo bilinguismo è un'impostura bella e buona, perché di napoletano autentico troviamo in tutt'e due solo la maestria con cui nella città partenopea si confezionano “paccotti”. Il romanziere, che a Napoli è pur nato, ha in realtà una buona competenza della lingua nazionale, ma si arresta poi a una espressione solo orale del dialetto, dimostrando senza scuse o attenuanti un'ignoranza pressocché integrale della sua forma scritta.

Non si pensi che si voglia fare qui un attacco agli scrittori analfabeti della propria lingua. A volte ce n'è un bisogno estremo come d'aria fresca dopo giorni e giorni d'afa soffocante. Ma per autori come Montesano il caso è ben diverso. Nessuno, fino a prova avversa, l'ha costretto a scrivere un linguaggio di cui ignora morfologia, grammatica e sintassi. In proprio o tramite editore, poiché non mancano di certo alla Mondadori e alla Feltrinelli, egli poteva mettere le carte in mano ad un esperto di napoletano o anche decidersi una buona volta ad impararlo. Né questa sembra una pretesa esagerata, dal momento che chi si dà alla professione letteraria o editoriale contrae una sottintesa obbligazione alla genuinità e alla correttezza del prodotto che si sta confezionando.

Non credo che faremmo affari con un istituto di credito, se questo trafficasse con moneta falsa o addirittura ne spacciasse ai suoi clienti e così pure un serio direttore editoriale o un critico provetto non dovrebbero accettare di buon grado un testo scritto in una lingua pezzottata. Non c'è nessuna sperimentazione narrativa che autorizzi a commettere reati di lesa maestà dell'italiano. Morfologia, grammatica e sintassi meritano il nostro massimo rispetto. E questo vale per tutte le lingue del pianeta, anche se volentieri poi si chiude un occhio quando si ha a che fare coi dialetti, ovvero con le lingue il cui apprendimento non è mai stato d'obbligo per legge. Solo così si spiega perché generazioni intere di parlanti sono analfabeti della propria lingua nativa.

A Napoli, come in mezzo mondo, vi sono un po' dovunque scritte sopra i muri e tuttavia nessuno taccia d'ignoranza chi si dedica ai graffiti metropolitani. La scrittura dialettale sopravvive in forma anonima e passione certosina sopra cartelloni, insegne e così via, in forme piene zeppe di errori e strafalcioni, sottraendosi alle norme mai fissate d'una lingua figlia di un dio minore. In realtà si può ben dire che non più di un migliaio di persone scrivono un corretto napoletano al giorno d'oggi. Una riserva di cultori amanuensi in via di rapida estinzione. Autodidatti non protetti da nessuna istituzione, in barba ai diritti linguistici consacrati dalla Costituzione repubblicana e dai trattati internazionali.

Tutt'altra cosa invece c'è da dire per chi della lingua fa mestiere e ne compone testi per metterli in commercio. Vi sono leggi che tutelano la vendita al dettaglio e agli acquirenti occorre garantire merci genuine. Nel caso di prodotti letterari non si può certo mettersi a discutere nel merito dell'arte poetica, drammaturgica o narrativa, ma si potrà ben pretendere la non contraffazione della scrittura. Se il testo lo si dichiara scritto in italiano si ha il diritto di attendersi di leggerlo in tale lingua e chiuderemmo volentieri un occhio di fronte a qualche errore di stampa. Se l'autore sceglie di scrivere in napoletano, soprattutto rivolgendosi a chi non conosce tale lingua e acquista in buona fede, ebbene egli non può distribuire in giro carte false e gabellare per partenopeo ciò che tutt'al più è un semplice idioletto.

So bene di non aver la veste, come si usa dire, per esprimere giudizi sulla narrativa e sulla critica letteraria. E infatti non ne parlo, anche se ritengo che se uno ha pagato il biglietto dell'aereo su cui vola ha poi diritto a biasimare il pessimo servizio a bordo, purché, beninteso, non pretenda anche di mettersi in cabina di comando. Inoltre credo sia ben chiaro che non ce l'ho affatto con Giuseppe Montesano o i suoi romanzi, quanto con i critici napoletani che, sia alle presentazioni in pubblico, sia in articoli di riviste e quotidiani o dagli schermi, hanno esaltato i testi, accreditandone non solo la qualità letteraria, ma pure l'uso esperto e intelligente della lingua partenopea. Nemmeno come se l'autore avesse risciacquato i propri panni popolari nelle acque dileguate del Sebeto.

Noi miseri cultori d'una lingua più diletta che saputa conosciamo bene quanti possono sentirsi autorizzati a simili indulgenze o, peggio ancora, a tali sfoggi d'ignoranza gabellata per cultura d'alto ingegno e di profondo studio. Nella generale confusione delle menti quelli che soltanto per antifrasi si dicono critici e intellettuali sono pronti a porre il timbro di origine controllata sui prodotti contraffatti dei linguaggi regionali. Questo nuovo clero di mediocrati amministra dagli schermi e dalle pagine parecchio più di quanto pensi e sappia, pur vestendo i panni di un mandato sociale ricevuto solo per investitura di clientela. Officianti della religione del denaro e del consumo, i chierici nostrani eseguono con zelo il compito assegnato dai poteri pubblici e privati di chi li paga e che, occultandosi, decretano l'attuale scempio dei dialetti.